In Verità

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sabato 26 gennaio 2013

MEMORIA E LA BANALITA' DEL MALE




Sono sempre rimasto interdetto da una ricerca che non ha mai prodotto reali risultati, una ricerca che è sempre caduta nel vuoto ogni volta che mi accingevo ad approfondirla. Non sono mai riuscito ad avere una cognizione chiara di uno dei pregiudizi più grandi e resistenti dell’occidente, quello dell’antisemitismo. A parte frasi deliranti di alcuni padri apologisti come Gregorio di Nissa, Girolamo e Giovanni Grisostomo, neanche motivate ma solo espresse di getto senza un’argomentazione valida, l’antisemitismo non ha acquistato senso. Allora sono tornato indietro, alla lettera ai Romani di San Paolo che viene considerata una sottospecie di documento antisemita; la cosa è già abbastanza sospetta, visto che lo stesso Paolo era un ebreo – della tribù di Beniamino – e nella stessa lettera, al capitolo XI, non solo lo dichiara ma ne è ovviamente fiero e indica il popolo ebraico come la radice profonda e incancellabile della cristianità. A questo punto salto in avanti, leggo – anche con un certo impegno e non senza difficoltà -, i monumentali commentari alla lettera ai Romani di Lutero – altro caso di propaganda perniciosa, perché è ancora ritenuto un pretucolo agostiniano ignorante secondo i dettami ben pubblicizzati dalla Controriforma quando invece con Erasmo rappresenta la mente teologica più brillante del XVI secolo  –, il testo di Barth ma niente. San Paolo non poteva essere antisemita. E la lettura che vede la riforma protestante come profondamente antisemita più che a Lutero va ascritta al cappellano di corte di Guglielmo II, Adolf Stoecker. Quindi l’empasse sulle origini dell’antisemitismo è piuttosto imbarazzante per noi occidentali; se consideriamo che persino la mitologia ha una spiegazione e una radice nonostante “queste cose non avvennero mai, ma sono sempre” come scrive Sallustio, scoprire che uno dei pregiudizi più nefandi della nostra storia si perde in sé stesso in modo fumoso e “sine ratio” ha un ché di indecente se abbiamo un minimo di senso storico per ricordare cosa ha prodotto sin da alcuni articoli del IV Concilio Lateranense del 1213, come la bolla  Hebraeorum Gens o la Diaspora Spagnola del 1492 nella quale vennero cacciati non solo gli ebrei ma anche i cosiddetti “Marranos”, ebrei convertiti al cristianesimo –  infatti temo chi usa il termine marrano senza conoscerne il significato.
C’è sicuramente un passaggio chiave che rende l’antisemitismo un sentimento ancor più alla portata delle masse… ed è l’avvento della borghesia nel tardo Ottocento, coadiuvata da una pessima diffusione del sentimento romantico – di cui ancora oggi paghiamo la banalizzazione - e di alcuni tardi esponenti autorevoli del movimento, come Wagner, Eliot, socialisti utopici come Fourier, e anarchici come Proudhon e Bakunin.
Dopo il periodo felice della Rivoluzione Francese e quello delle campagne napoleoniche in Europa - dove tutti i Ghetti vennero aperti e ai cittadini ebrei furono concessi eguali diritti innanzi alla legge -, l’antisemitismo divenne una sorta di moda inquietante che attraversò anche menti eccellenti e notevoli. La Borghesia, questa nuova padrona dell’economia e della società moderna non avendo retaggio e sangue di stirpe da esibire non poteva non rifarsi su un sangue da sempre ritenuto sporco, reo di “deicidio” e usuraio: il capro espiatorio era già bello e pronto insomma, costruito e voluto per due millenni. E il fatto che buona parte dell’economia europea fosse in mano ad ebrei rappresentava un bell’incentivo.
Se ancora oggi vogliamo individuare un borghese vecchio stampo ma duro a morire, anche tra le fila di sedicenti progressisti, basta aprire la discussione semita, quando si  dichiarerà quantomeno preoccupato dalla questione ebraica è individuato; e ogniqualvolta gli si chiederà il perché avremo la stessa risposta: “non so il perché ma è così!”, se è onesto… altrimenti si appellerà ad uno dei più evidenti falsi storici mai realizzati: i cosiddetti “Protocolli dei Savi di Sion” una serie di documenti, anche grotteschi, redatti dall’Okhrana zarista agli inizi del novecento per diffondere la voce di una cospirazione mondiale degli ebrei per conquistare il mondo. Questi documenti hanno avuto una eco tanto indegna quanto efficace e diffusa nell’ignoranza generale sino ad essere utilizzati per dare una surrettizia e improbabile radice sionista alla rivoluzione russa e infine per motivare storicamente gli albori e lo svilupparsi della propaganda antisemita prima del nazismo e poi del fascismo.
Ma il grottesco in questo caso è stata l’ispirazione di una delle pagine più oscure e tragiche della storia dell’umano: il primo genocidio su scala industriale realizzatosi proprio nel cuore della civilissima Europa la cui responsabilità non va semplicemente circoscritta in un determinato paese, in un determinato periodo storico e su una determinata popolazione o gruppo di persone. Essa ricade sulla natura e sulle coscienza dell’uomo nella loro interezza, non come una maledizione o come una semplice macchia, bensì come un apice oscuro ottenuto, una vetta senza vita toccata e raggiunta, definita, conosciuta ed ora incancellabile.
La memoria non è un semplice ricordo, una celebrazione a testa china e contrita di un evento, ma l’assoluta consapevolezza di ciò che è riuscita a raggiungere e realizzare la natura umana quando svuota di significato e consistenza la carne dei suoi simili. Non un accadimento storico dunque, una semplice pagina racchiusa nei libri di storia, ma un qualcosa che scorre con noi travalicando ogni cronologia, che mostra in tutta la sua cruda essenza ciò di cui siamo stati capaci e potremmo tornare a realizzare, e così sopravvive, persiste e persisterà in ogni generazione e in ogni singola vita questa ferita viva e sempre sanguinante che accompagnerà la storia dell’uomo sino alla sua fine.
Hannah Arendt ci ricorda che coloro che si impegnarono con dovizia, metodo e precisione alla Soluzione Finale non erano dei folli o degli esaltati, ma figure consapevoli, paurosamente “normali”, con un affettività normale, con dei sentimenti comuni, con famiglie e figli, con una sola gelida e fredda consapevolezza: fare il proprio lavoro! Non farsi domande né chiedersi se ciò che adempivano con burocratica precisione era bello o brutto, giusto o sbagliato: “nessuna domanda, alcuna coscienza” solo realizzare il compito, e per assolvere con maggior serenità a questo lavoro si utilizzano termini freddi, burocratici, informali, parole che mai dovevano lasciare ad intendere ciò che avveniva, ma solo statistiche, numeri, comunicati brevi e scarni: anche la più stopposa retorica si riformulò in raggelante telegrafia.
Il ragioniere del Reich, Eichmann fu per la pensatrice l’emblema di questa inquietante ed efficace banalità: i medici, gli psichiatri che lo tennero sotto controllo durante il processo a Gerusalemme affermarono che era una persona “normale”, un dottore addirittura dichiarò: “è più normale lui di quando lo sia io adesso dopo averlo visitato”. 
Durante il convegno di Wannsee del  20 gennaio 1942, dove furono decisi i modi e i tempi della Endlösung der Judenfrage (la soluzione finale della questione ebraica), l’ufficiale Adolf  Eichmann non solo era presente ma fu il compilatore a macchina del documento, di cui è rimasta una sola copia.  Dopo aver trascritto i nomi, i ruoli e responsabilità dei presenti (in tutto 15), in  sedici pagine fu deciso lo sterminio sistematico degli ebrei rimasti nei paesi europei, compresi quelli ancora da conquistare, come il Regno Unito e l’Unione Sovietica. Il ragioniere Eichmann con grande zelo mise in una colonna i vari paesi, in un’altra accanto il numero di ebrei che li abitavano e alla fine furono tirate le somme: in totale undici milioni di esseri umani trattati come un rendiconto, una cifra da estinguere e trattare. Tra questi erano contemplati anche i cosiddetti “Mischlinge”, persone nate da matrimoni  misti di ebrei e non ebrei, efficacemente distinti per gradi di appartenenza, e più loro erano vicini all’”impurità” e più la loro sorte era segnata.
Durante il processo che lo vide imputato, Eichmann non negò nulla, non si preoccupò di giustificare il suo operato né si notarono tracce di pentimento: lui dichiarò semplicemente che faceva il suo lavoro, adempiva al suo compito come gli era stato ordinato. La Arendt scrive: “Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato che con il passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge.”
Il contabile del Reich era parte di un progetto, un piccolo burocrate efficace investito di un ruolo, e, come tutti gli altri, lavorava per attuarlo al meglio. Quindi nessun pentimento o presa di coscienza, questi fattori erano semplicemente inutili per la realizzazione dello scopo: "Ciò che più colpiva le menti di quegli uomini” – scrive la Arendt “che si erano trasformati in assassini, era semplicemente l’idea di essere elementi di un processo grandioso, unico nella storia del mondo (“un compito grande, che si presenta una volta ogni duemila anni”) e perciò gravoso. Questo era molto importante perché essi non erano sadici o assassini per natura; anzi, i nazisti si sforzarono sempre, sistematicamente, di mettere in disparte tutti coloro che provavano un godimento fisico nell’uccidere. (…). Perciò il problema era quello di soffocare non tanto la voce della loro coscienza, quanto la pietà istintiva, animale, che ogni individuo normale prova di fronte alla sofferenza fisica degli altri. Il trucco usato da Himmler ( che a quanto pare era lui stesso vittima di queste reazioni istintive) era molto semplice e molto efficace: consisteva nel deviare questi istinti , per così dire, verso l’io. E così, invece di pensare: che cose orribili faccio al prossimo!, gli assassini pensavano: che orribili cose devo vedere nell’adempimento dei miei doveri, che compito terribile grava sulle mie spalle!"
Arrivati a questo punto la ragione perde ogni autorità: cade ogni ricerca di verità, di una motivazione profonda, storica, oggettiva di tutto questo. In questa tragica e banalissima dinamica si ripercuote e risuona la stessa risposta del borghese di vecchio stampo ancora armato da quell’ incosciente ma sotterraneo antisemitismo che ho ricordato prima: “ la questione ebraica è preoccupante, non so il perché, ma è così!” Una risposta superficiale, pregiudizievole senza radici alcune, ma sempre latente e strisciante… per nulla convincente ma radicata sulla pelle di ciò che è male solo perché non ha la benché minima sostanza: “Quel che ora penso veramente è che il male non è mai 'radicale', ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso 'sfida' come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua 'banalità'. Solo il bene è profondo e può essere radicale.“Hannah Arendt la banalità del male: Eichmann a Gerusalemme”

mercoledì 23 gennaio 2013

PRESUNTI INNOCENTI




In Italia, come in ogni paese almeno in odore di Democrazia, esiste la presunzione di innocenza: in pratica chiunque sia oggetto di indagini e processi è ritenuto innocente sino ad eventuale condanna definitiva, e tale norma – regolata dall’articolo 27 della Costituzione, prevede che l’inquisito sia da ritenersi innocente per tutti e tre i gradi di giudizio, fino alla Cassazione insomma. L’Italia dunque è garantista, non c’è la Stasi della Germania est che incarcerava persone senza che queste fossero a conoscenza dei propri capi d’accusa – ammesso che ve ne fossero. Nessun K. Del Processo di Kafka dunque.
Ma l’Italia, come troppo frequentemente accade, ha vestito questo principio - legittimo e sacrosanto -  col costume miserrimo del grottesco.
Ieri mattina, in una trasmissione su la7, Renato Brunetta – questo minipony impazzito della politica italiana – si è appellato a questo principio per difendere Nicola Cosentino, ex sottosegretario all’economia, parlamentare italiano sino al gennaio 2012, e ancor prima coordinatore del Pdl in Campania inquisito in due processi per concorso in associazione mafiosa: il primo per la gestione dei rifiuti nel casertano, il secondo per finanziamenti illeciti ad imprese che erano “diretta espressione della criminalità organizzata”, come si legge nei capi d’accusa nei confronti dell’ ex “onorevole”.  
Il politico campano ieri però si è un po’ piccato… infatti ha presentato il suo nome per candidarsi nelle liste del Pdl in vista delle prossime elezioni di febbraio e ha ricevuto un no – non tanto secco bisogna dire, piuttosto rammaricato e frutto di una delle famose notti insonni del Cavaliere in tanga leopardato. Cosentino ha visto questa scelta come un abbandono, un ingiustizia e signorilmente, in una conferenza stampa, sostenuto da una claque tanto smaccata quanto inquietante che lo applaudiva a scena aperta, si è detto vittima di una magistratura iniqua e dittatoriale che lo perseguita, non nascondendo una strisciante volontà di rivalsa e perché no di “onorevole vendetta” anche verso i suoi ex alleati politici.
C’è da dire che nei confronti del “trombato” per cause di forza maggiore” da Berlusconi ci sono due mandati per gli arresti domiciliari a fini cautelativi già emessi ma, Dio solo sa il perché, non effettivi; difatti Nick 'o 'mericano, come viene simpaticamente soprannominato, è libero di presentare la propria candidatura, vedersela rifiutare, incazzarsi per questo e – ciliegina sulla torta – indire una conferenza stampa – dove il pubblico è composto da parenti, amici, dagli amici degli amici, e dagli amici degli amici di “amici” - per manifestare il proprio disappunto.  Ha ragione Cosentino! Sì… in Italia la magistratura è una dittatura che impedisce alle persone di essere libere. Comanda tutto lei: infatti Silvio Berlusconi che ha una condanna definitiva in primo grado per corruzione e altri due processi aperti, il caso Ruby e Unipol, può presentare una lista di deputati e senatori, essere il capo di un partito, ambire alla presidenza del Consiglio per l’ennesima volta, andare in televisione e definirsi vittima dei giudici. Se non è persecuzione questa signori miei! Veramente non solo è l’unto dal signore ma l’agnello sacrificale della magistratura; infatti l’unzione è avvenuta con d’olio extravergine e spennellatura di rosmarino per cucinarlo a puntino, altrimenti non ha sapore. Ma purtroppo i magistrati dovranno metterlo nel freezer e tenerselo crudo ancora un po’ visto che tutti i suoi processi slitteranno a sin dopo le elezioni con la speranza che vada a male di suo.
Cosentino in fondo non è diverso dal suo ex Presidente, non solo per comportamento ma anche per promesse non mantenute. Dopo essere stato inquisito – ricordiamo per associazione mafiosa - si appellò all’immunità parlamentare e non gli fu concessa per soli sei voti, quelli dei radicali. Prima del voto Cosentino promise che in caso di parere negativo si sarebbe allontanato dalla vita politica definitivamente… ma il suo senso del dovere nei confronti dello Stato, di giustizia sociale, di responsabilità civile non gli han fatto mantenere la parola. E queste sono esattamente le parole di Silvio – il torello dell’olgiata – il quale desidererebbe infinitamente costruire ospedali per bambini, fare opere di carità a minorenni depresse perché tutte nipoti non-riconosciute di Capi di Stato crudeli che le abbandonano in Italia. Lui vorrebbe tantissimo abbandonare tutto e potersi dedicare alla diffusione del Viagra nel mondo, mentre Apicella mette in musica le elegie di Bondi, ma non può… l’Italia ha ancora bisogno di lui, anche dopo che sarà criogenizzato, perché senza di lui si corre il rischio di diventare un paese decente e questo l’Italia non se lo può permettere.   

   

venerdì 18 gennaio 2013

SIAMO LA COPPIA PIU' BELLA DEL MONDO!




Io amo il non-sense, l’assurdo, a volte anche la realtà…. anche perché tutti questi “giochi” intellettuali difficilmente – anzi  quasi mai – superano una determinata soglia che è quella dell’invenzione. Ma oggi l’assurdo supera di gran lunga la decenza; Pannella si allea con Storace per la corsa al governo laziale, il ché significa che mentre il primo sciopererà per il giorno della memoria, il secondo riproporrà la  Cum nimis absurdum e transennerà il quartiere ebraico della capitale. Pannella si rovinerà la salute digiunando e Storace libererà il nostro intestino con una bella sciacquata di olio di ricino.Che prima o poi tutti gli scioperi della fame e della sete avrebbero rincoglionito Pannella era prevedibile, ma Storace? Uomo tutto d’un pezzo - proprio un pezzo solo, un tronco di carrubo oramai secco ma secolare e oliato a dovere, un bulldog che fa impressione anche quando ti riporta il bastoncino – perché si allea con Pannella? C’è da dire che questo residuo ridicolo del fascismo patisce di brutto la solitudine! Da quando è stato abbandonato dai suoi camerati – figure di spicco e intellettualmente notevoli del calibro di La Russa e Gasparri – è andato a ripararsi ovunque sino a trovarsi fuori dal parlamento e, quindi, pur di rifarsi avrebbe ripescato persino Bertinotti e dichiarato che Gramsci non fu messo in carcere bensì ospitato volontariamente in un centro benessere – spartano ma efficace -  nei pressi di Turi. Il movimento politico di questo inquietante soggetto ha un nome che è tutto un programma: “Fratelli d’Italia”, ma non lasciamo ingannare: non è ispirato al nostro inno nazionale ma al film di Neri Parenti… non può che esser così; me ne vado per esclusione, il ridicolo non può vestirsi di gloria – seppur patriottica e anacronistica.Ciò che più stupisce e sconvolge non è tanto il fatto che due movimenti assolutamente opposti si alleino - questo è ridicolo ma ancora non vergognoso – ma la sola idea che lo facciano solo per poter avere un posto al sole in questa eclissi della decenza. Qualche seggio alla regione Lazio fa comodo, è utile, Batman Fiorito ha dimostrato che si mangia bene, la Polverini addirittura aveva iniziato a sembrare un donna vera, anche perché tutti i primi tempi le chiedevano se era lei “quello” che se la faceva con Marrazzo! La regione Lazio è un bel boccone, si sta bene, persino Formigoni ci avrebbe fatto un pensierino se non fosse stato per sopraggiunte difficoltà di tipo giudiziario amministrativo in Lombardia. Ma solo dei fastidi eh? Niente di grave, anche se il 70%  della giunta lombarda è inquisito il restante è limpido come l’acqua dei navigli! 

mercoledì 16 gennaio 2013

UN FILM: MOONRISE KINGDOM



Sono un accidioso e questo mi nega spesso dei semplici piaceri, come appunto il cinema – anche se devo ammettere che il caso mi concede inaspettati colpi di fortuna.  
Moonrise Kingdom è un’americanata necessaria e dai risultati tanto felici quanto delicati. Una commedia ben costruita, dove nulla è lasciato al caso, richiede un impegno notevole anche perché il soggetto è in apparenza estremamente banale. Due ragazzini in piena pubertà nel 1965 nell’alveo rassicurante di un’isola del New England realizzano una fuga d’amore meditata per via epistolare. L’anno è tutt’altro che un caso: nel 1965 ufficialmente finiscono gli anni 50’ – cosa che nei personaggi e nell’ambientazione del film è volutamente ignorata: nascono band come i Pink Floyd e i Beatles, muore Le Corbusier,  dopo la crisi del Tonkino gli Stati Uniti mandano le prime truppe in Vietnam, sarà ucciso Malcom X, viene spedito nello spazio il primo satellite di comunicazioni e un’altra sonda manda le prime foto da Marte. Le citazioni figurative, musicali e letterarie sono numerosissime ma ben distribuite e mai lasciate al caso. La ragazzina, algida e severa, e in apparenza anaffettiva, abita nella Casa di bambola di Ibsen immaginata in un quadro di Hopper e guarda il mondo con un binocolo – e con silenziosa indifferenza osserva anche l’adulterio che la madre (interpretata da un’ottima Frances McDormand) consuma  con il capo della polizia dell’isola (un inconsueto ma felice Bruce Willis). 





La recitazione è formale, assolutamente inespressiva – raramente i personaggi si guardano negli occhi -, i dialoghi lenti ed essenziali si sviluppano ironizzando sul manierismo hollywoodiano dell’epoca. Tutto è recita: l’ipocrisia, la formalità, l’assoluta assenza di spontaneità non vengono mai volutamente tradite nel distendersi della trama, come accade in ogni contesto di maniera. Tutto accade come se l’indiscreto Sputnik stesse osservando dall’alto e per questo ogni vero americano è chiamato a recitare la parte del “perfetto americano”! 


All’interno di questo clima alla Grant Wood la borghesia statunitense si culla e fa la sua parte in modo calcolato, come ad esempio quella del marito tradito e consapevole – lo straordinario Bill Murray – che vive ottundendo ogni emozione, riducendo al minimo la sua presenza se non per brevi tratti in cui bipolarmente mostra tutta la sua rabbia repressa; critica delicata ed efficace all’immagine di perfetta famiglia americana sponsorizzata in bianco e nero dalle pubblicità di detersivi dell’epoca.
Il piccolo Romeo è invece uno scout orfano tutt’altro che popolare, con un’indole da Huckleberry Finn ma con degli occhialoni da precoce colletto bianco: indossa quasi sempre un cappello di castoro alla Davy Crockett e fuma una piccola pipa di grano. La fuga è molto sobria, lui porta con sé tutto il necessario per il campeggio, mentre lei in un cesto da picnic tiene il suo gatto, il binocolo, dei libri di avventure e di fantascienza al femminile, un mangiadischi "preso in prestito" dal fratello minore e un solo 45 giri “Le Temps de l’Amour di Françoise Hardy” che accompagnerà i due fuggitivi nei primi approcci amorosi su una piccola spiaggia asetticamente denominata “Insenatura 2,25 miglia” che loro ribattezzeranno Regno della luna al tramonto (Moonrise Kingdom appunto, frase che mi è stata tradotta). In questo abbozzo provinciale dell’Isola di White il giovane Sam ritrae la sua Suzy e le fa degli orecchini con due ami e due insetti, e nel loro concetto di avventura e di poesia senza rime resuscitano inconsapevolmente Walt Whitman strizzando già l’occhio a Keruac. La fuga viene soffocata e - come da copione - i due vengono condannati a non vedersi. Ma questa ribellione sobria e inaspettata frattura l’equilibrio formale e stantio di tutti i personaggi, compreso quello del caposcout - interpretato da Edward Norton -  sino a quel momento irrimediabilmente condannato ad una ottusa, ridicola e formale disciplina paramilitare nel campo Ivanhoe.  Il piccolo protagonista si vede rifiutato anche dalla sua famiglia affidataria e si aprono le porte dell’orfanotrofio annunciate da una fredda e insensibile assistente sociale (Tilda Swinton), che sembra appena uscita da Fahrenheit 451 di Ray Bradbury. Questo personaggio è volutamente senza nome … si chiama solo “Assistenza Sociale”, così come le varie streghe del Mago do Oz usavano i punti cardinali per distinguersi.
Ma i due amanti, questa volta aiutati da tutti gli scout del campo, scappano di nuovo, e così Suzy – come la Wendy di Peter Pan – ha anche il tempo di leggere loro davanti ad un falò, le pagine dei suoi libri.  Si annoverano a questo punto velocemente: il ludico matrimonio dei due, un fumettistico fulmine che colpisce il protagonista nell’eroico e grottesco tentativo di combattere contro i suoi inseguitori, e la prospettiva di vita da latitanti su un peschereccio che non raggiungeranno mai.


Nel frattempo interviene una tempesta sull’isola e i due fuggitivi si ritrovano mano nella mano sul campanile della chiesa in procinto di saltare. Il finale – che ometto - è però volutamente in perfetto stile lieto fine, anche perché la commedia americana – anche se d’autore – difficilmente concepisce il sincretismo narrativo tra commedia e dramma.  La pellicola – anche se non so se così ancora la si possa chiamare – è deliziosa, senza eccessive pretese e per questo le esaudisce tutte. Uno spaccato ironico ma non dissacrante su uno dei periodi più complessi della storia americana, quel periodo che divide la generazione cresciuta nell’illusione dell’ottimismo propagandistico degli anni cinquanta  da quella della contestazione. Originale è la colonna sonora che vede avvicendarsi in modo puntuale Bernstein, Antonhy, Desplat, la Hardy, Rubner, Williams e Britten. Originale anche il filo rosso che unisce l’incipit e la fine del film: all’inzio un disco istruisce l’ascoltatore sulla composizione e la struttura della musica sinfonica, nei titoli di coda è la voce di un bambino che elenca l’ingresso degli strumenti nella composizione, quasi a rivendicare un’autonomia di pensiero e azione  rispetto ai dettami imposti dall’alto.
Un particolare plauso va al piccolo attore bendato che recita la parte di “occhio pigro”…. Che in tutto il film ha una sola battuta: “stanno tornando indietro”. 


venerdì 11 gennaio 2013

SERVIZIO PUBBLICO E LA GUERRA DELLE “PRIME NONNE”



Il Sardanapalo di gomma ci ha dimostrato che l’allopatia vince ancora – almeno sulla distanza - rispetto alle medicine naturali. Viagra contro peperoncino purtroppo uno a zero in zona cesarini!
Ieri a Serviziopubblico non abbiamo assistito ad una trasmissione politica o a un confronto sui contenuti o sulle idee – vedendo l’ospite d’onore sarebbe stato un po’ come confondere un bidet con una fontanella pubblica – bensì a un alterco tra due prime donne per conquistare la fila d’onore, e quella più “navigata” è uscita in dirittura d’arrivo, puntando sulla stanca di quella inesperta e presuntuosa, conquistandosi per prima il camerino della star! Berlusconi – diva di provincia che ha ottenuto il successo solo grazie a "certe" conoscenze, sempre un po’ parvenu – cerca di imitare Jakie Kennedy sin da quando esce dall’auto: essendo già sera e si è dovuta togliere gli occhialoni da sole mentre Bondi la caricava a pallettoni ripetendole a iosa: “maestà è bellissima in tailleur, ma il cappellino col Duomo di Milano che le impresso le stimmate è troppo!”
Dall’altra parte tronfia e un po’ sfacciata la padrona di casa Michele Santoro, certa di avere la vittoria in pugno, ostentava serenità e nonchalance giocando a burraco con Ruotolo mantenendo però a fatica una posa alla Dietrich, senza rendersi conto che il bocchino di sessanta centimetri stava incendiando la Martone!
Insomma, la vecchia Osiris oramai sul viale del tramonto si giocava il tutto per tutto, come tutti quelli che non hanno più niente da perdere, mentre la Edy Vessel della sinistra italiana, fiera della sua freschezza, era certa di poterci solo guadagnare!
Berlusconi si fa trovare già seduta e mette in bella mostra il suo trapianto ex novo grazie ai bulbi piliferi dei Romanov in ricordo dell’eccidio dei Bolscevichi comunisti del 17’, è una piazza ai caduti vivente… e nel portafoglio c’è la sua personalissima via Bettino Craxi. Intanto Santoro gioca come il gatto gioca col topo – o almeno crede – e gira intorno alla gallinella che promette un ottimo brodo come uno squalo, senza mai veramente affondare, certa che tutta la compagnia la spalleggi e che quindi possa divertirsi ad umiliare il torello dell’olgiata. Le due prime donne non si preoccupano neanche di studiarsi, fanno le loro parti pungolandosi, e Berlusconi ad hoc si è fatto un lifting impostato solo su tre espressioni: ingrifato presuntoso, ingrifato indifferente, e ingrifato ingrifato!, quindi il suo volto non offriva la reale gamma di sentimenti che lo attraversava – ho visto playmobil più estroversi e in confronto a lui Legoland di notte è via Condotti sotto Natale!
Tutta la serata è stata spesa – parola grossa – a vedere queste due decadute beccarsi e solo il servizio iniziale dedicato ai lavoratori del Bresciano, i due interventi di Travaglio e la dignitosissima e illuminante arringa dell’imprenditrice Francesca Salvador hanno restituito decenza e nobiltà a quella squallida lotta fra galli messicani! Ma il protagonismo delle due Dive era troppo ipertrofico e dilagante… e la sindrome della prima fila è la vera pandemia della politica show italiana… quindi la vecchia volpe prende la parola e inizia a leggere la voce Marco Travaglio di Wikipedia: elenca tutti i suoi trascorsi giudiziari con voce incerta ma continua, senza fermarsi né ascoltare i brusii e i dissensi dello studio ( in fondo aveva dichiarato di essere sorda)… la gatta Santoro inizia a muovere nervosamente la coda e soffiare…, ma la Osiris non si ferma, anzi… continua impunemente a mettere sale sulla coda della padrona di casa! E qui il patatrac! Santoro, questo inutile giustiziere della notte, riversa tutto il suo passato rancore sulla vecchia diva, che fa le scale col catetere ormai,  nel pallido tentativo di difendere Marco Travaglio che nel frattempo se la rideva – in fondo è lui il giornalista vero e aveva molti più strumenti di Santoro per difendersi, e infatti lo ha dimostrato subito dopo in quattro e quattr’otto.
Alla fin della fiera Berlusconi è rimasto sino alla fine, anzi è stato Santoro ad accomiatarlo dandogli del vecchio – cosa vera, ma in quel contesto poco gentile perché dettata da un’acribia tutta personale, non politica o culturale. A questo punto si avvicina Cicchitto alla salma, scuce il culo di Berlusconi dalla sedia, e il Sardanapalo patetico che mantiene 42 ragazze per non farle parlare ai processi, che da centomila euro al giorno alla ex moglie, colluso con la mafia, ex appartenente alla P2, inquisito per sfruttamento della prostituzione minorile, condannato per frode fiscale, corruzione, Amico di dell’Utri e Craxi (e solo questo in un paese vero lo inchioderebbe definitivamente), amico degli amici degli amici degli amici… se ne è andato quasi divertito, cosciente che almeno due punti percentuali li ha guadagnati facili facili facendo semplicemente la preziosa e la ridicola davanti a un’altra persona presuntuosa e ridicola come lui!
E così la favola finisce, la storia di queste due prime donne che si sono scoperte dopo un paio d’ore entrambe troppo vecchie e stantie per risultare ancora appetibili… si sono rivelate infine solo due ridicole “prime nonne”!    


giovedì 10 gennaio 2013

I TRE CERUSICI E LA SINDROME DELLA CROCEROSSINA!




Ieri chiacchierando con un amico mi sono ritrovato tristemente illuminato, il suo acume mi ha delucidato su qualcosa di ovvio ma sconcertante – che forse ho voluto rimuovere solo per senso di decenza.  Berlusconi, Monti e Bersani, solo apparentemente divisi ideologicamente sono figli illegittimi dello stesso postribolo, e forse anche della stessa nefanda madre. Tutti e tre adesso in campagna elettorale negano ciò che hanno voluto e “votato”. La legge di Stabilità, l’Imu, la riforma dell’articolo 18, la riforma della scuola e della Sanità – già definirle riforme è uno scempio sintattico del quale mi scuso –,  a loro dire sembrano scese dal cielo, sono norme e leggi di questa Repubblica ma adesso sembra che nessuno ci abbia messo mano: nessuno le ideate, proposte e votate secondo i tre "amigos". Sempre secondo questi  tre figli di “N.N.” tutte le soluzioni inutili, che non hanno fermato il debito pubblico, destinate oltretutto – inevitabilmente - ad aumentare la povertà con tasse inique che gelano il potere di acquisto e la ripresa dell’economia del paese, balzelli medioevali che non hanno neanche il nobile scopo di migliorare servizi e prestazioni per i cittadini – ciò a cui servirebbero in teoria le tasse secondo il dettame costituzionale -, non sono state idee loro ma frutto di un funesto e sconosciuto caso. Questi tre maschioni, dunque, negano la paternità della loro mefitica prole. Li vedi in televisione con la faccia come il culo – opportunamente scolpito in marmo di Carrara – convinti di non essere i responsabili di leggi ideate, proposte e votate da loro sino a quindici giorni prima. Nessuno ha almeno la decenza di parlare a testa bassa; ce ne fosse uno che riuscisse quanto meno a far trapelare un impercettibile senso di vergogna per quello che afferma. Dico uno di questi tre scellerati che manifesti il buongusto di dire: “scusate, ma devo pararmi il culo… quindi  perdonate le apocalittiche puttanate che dichiaro.”  Riforme senza metodo e decenza, tasse scritte con l’accetta e, ciliegina sulla torta, una legge di stabilità, paragonabile a due o tre finanziarie messe insieme… e come per magia nessuno di loro ne è responsabile. Manca poco che Monti affermi che quando le ha ideate proposte si era distratto perché impegnato a tappare la Fornero che aveva cominciato a perdere liquidi copiosamente dai condotti lacrimali - ma così… a cazzo, senza una ragione -, che Bersani  non rispondeva di sé perché D’Alema indispettito gli aveva messo della “maria” andata a male nel sigaro e Berlusconi dichiarare che quel giorno per distarsi dalla cattiveria di giudici comunisti, era andato a puttane e al posto suo aveva votato quel rincoglionito di Bondi! Nessuno è responsabile di tutto questo, tutti ripudiano le loro azioni, le loro decisioni, le loro stesse votazioni - che spero siano quantomeno agli atti di un parlamento ridotto ad un circo di animali malati e morenti e animato pagliacci che ballano sulle loro carogne!
Adesso questi tre adesso signori si atteggiano a primari di un lazzaretto ridicolo, discorrono comprensivi ed ottimisti su un comatoso al quale hanno staccato loro stessi la spina. E tutti noi siamo crocerossine piene di abnegazione e romantica illusione. La sindrome della crocerossina è tanto diffusa quanto poco tenuta in conto dalla letteratura clinica.
La crocerossina patologica non è quell’anima pia che si adopera per alleviare dolori e le sofferenze altrui – cosa nobilissima – bensì è quel soggetto compulsivo che continua ad adoperarsi patologicamente anche quando non v’è più speranza. Un essere tenero che ha inutilmente a cuore la salvezza dei già morti, che ripete di continuo a se stessa: “continuo nonostante tutto perché c’è del buono in questa carogna e tutto può risolversi, ed io lo salverò!” Un autoconvincimento ossessivo e caparbio che pur di non ammettere l’errore e il fallimento del suo agire si accanisce  credendo che ci sia sempre del salvabile anche in ciò che non ha più respiro o ragion d’essere. Non è la cura il suo obiettivo ma la salvezza disperata e disperante delle proprie illusioni.
In definitiva abbiamo da una parte tre tristi e pomposi cerusici che ancora lavorano con le sanguette, pronti a generar piaghe sulla nostra esistenza, dichiarando sfacciatamente che sarà per il nostro bene…  e dall’altra un popolo di crocerossine patologiche e illuse che li voteranno ciecamente: cuori sporchi ma sinceri che ritengono che questi tre “galantuomini” essendo quelli che più si fanno vedere siano coloro che hanno più cose da dire e, quindi più abilità e competenze da proporre per il bene comune - mentre hanno solo più mezzi per illuderle. Tre tristi figure dalla dubbia autorevolezza e un esercito di gente illusa e stanca pronto a sacrificare la propria anima e le proprie idee a delle salme solo ben agghindate e ottimamente mummificate, galvanizzate di tanto in tanto da mezzi di comunicazione compiacenti e goduriosamente proni.   

martedì 8 gennaio 2013

BAMBINELLO "CIVICO" MONTI





La Lista civica di Monti è stata presentata qualche giorno fa opportunamente incorniciata da un simbolo sobrio ed essenziale che rispecchia lo stile del tecnico “Ex” presidente del consiglio, che tutti si ostinano a chiamare ancora presidente sbagliando – credo - volontariamente.
Monti per circa un mese ha temporeggiato cercando di dar vita ad una tanto mediocre quando superflua suspance – facendo un paragone con della pessima letteratura, immaginiamo un men che discreto romanzo giallo le cui già scarse intenzioni vengono colpite a morte dalla scelta infelice di questo titolo: “Sono stato io, firmato il maggiordomo”, chiunque quantomeno ne eviterebbe la lettura, ma ricordiamo che in questo paese crediamo a tutto, e dobbiamo ammettere che il professore veste egregiamente i panni del cerimoniere. Mentre Monti negava, tentennava surrettiziamente, lasciava trapelare, il suo entourage - composto da ciellini ambiziosi, membri austeri e famelici dell’Opus Dei e nati beati della Comunità di Sant’Egidio - si lambiccava il cervello per dar vita a un simbolo la cui efficacia comunicativa è paragonabile a quella del valore finanziario di un titolo di stato greco.


Ma tutto questo non deve stupire né tanto meno consolare i detrattori del professore. Il progetto Monti è dipanato su una scala temporale più ampia e ben più complessa. Dopo gli interventi del suo governo, la cui scelleratezza è ben mascherata da un pedigree impeccabile e dall’indiscusso appoggio dei poteri finanziari europei, sarebbe stato piuttosto azzardato credere che la “salita” in politica del bocconiano si tramutasse come per incanto in un accorato e felice plebiscito; quindi dobbiamo cercare altrove e con altre metodologie le reali intenzioni e le effettive volontà del movimento Montiano. Certo dell’indifferenza, se non del disprezzo, dell’elettorato il senatore a vita inizia una questua di consensi in ben altri ambienti, forse più potenti ed efficaci. Inizia innanzitutto ad esser più credibile e solido per le realtà industriali e finanziarie del paese: Marchionne, Montezemolo, la Marcegaglia, tutti soggetti notevoli e forse anche poco amati dal perfetto liberismo montiano, in quanto spesso e volentieri hanno attinto dalle casse dello stato per recitare la parte dei grandi capitalisti, ma in questo momento si sono rivelati utili e necessari allo scopo.
In seconda istanza Monti ha avuto - ed ha - gioco facile in campo politico riuscendo a raccattare quelle poche personalità rimaste più o meno intatte sotto le macerie di un ridicolo berlusconismo, che sta solo stridendo fastidiosamente nel patetico tentativo di imitare un inverosimile canto del cigno. L’Italia è simile all’arreso Bartleby di Melville,  anela per accidia da sempre il centro e la lista Monti è lì pronta a ruminare e riproporre politicamente la stantia chimera della moderazione, tanto cara – mi ripeto - ad un elettorato da sempre indifferente e distante, che ama delegare persino le proprie idee e convinzioni, la cui odierna rabbia è destinata a dissolversi in fumo. 


Infine Monti - come un novello Don Sturzo, sotto forma di bancomat - ha cercato ed ottenuto il placet di un Vaticano desideroso di una resurrezione profana nella politica italiana. Le ingerenze vaticane durante il berlusconismo sono state deboli ed inefficaci visto il connubio poco credibile con una classe politica risibile, la cui consistenza era pressoché nulla e vergognosa. Anche qui Monti ha dovuto sforzarsi poco: il Vaticano pur di liberarsi di Berlusconi avrebbe accettato persino i bolscevichi e il professore è cascato a fagiolo, come una benedizione dal cielo insomma.
Questo movimento quindi fa contenti tutti, moderati, capitani d’industria, massoni, chiesa, ex fascisti dalla kippah facile per rimettersi a nuovo, anime pie ed eminenze grigie di movimenti religiosi inquietanti che adesso possono permettersi di allargare la propria ombra anche in pieno mezzogiorno. Sindona, Marcinkus e Cuccia sarebbero stati fieri di tutto questo.    




TUTTI ROBINSON E NESSUN VENERDI'



Sana regola consiste nel sottovalutare mai alcun testo… e una rilettura adulta del Robinson Crusoe è sempre consigliabile. Dafoe per questo rivoluzionario romanzo - con ogni probabilità - si ispirò alle avventure di un marinaio scozzese, tale Alexander Selkirk, tanto che l’isola di Mas a Tierra dove approdò lo sfortunato scozzese è stata ribattezzata l’isola di Robinson. Di naufragi - e sopravvivenze a questi - la letteratura occidentale è piena; e così come l’Odissea non è la semplice la cronaca di un ritorno ma anche la mappa di una colonizzazione, il Crusoe non rappresenta semplicemente la storia di un uomo che – unico superstite di un naufragio sulla tratta degli schiavi – riesce a sopravvivere e resistere alla natura selvaggia per poi ritrovarsi dopo venticinque anni, al suo ritorno ricco e agiato grazie ai guadagni indotti delle sue piantagioni. Se così fosse autore, soggetto e trama sarebbero incorsi tanto rovinosamente quanto legittimamente in un doveroso oblio.  Il libro di Dafoe è qualcosa di più di tutto questo e forse anche più di quanto la fortuna letteraria giustamente gli ha riconosciuto. Pensiamo ai co-protagonisti del romanzo: la natura selvaggia, una bibbia, un’arma carica, un pappagallo e una tribù di cannibali opportunamente sterminata dal civilissimo Robinson, eccetto un componente “ribattezzato” Venerdì in memoria del giorno del loro incontro. Venerdì non è un risparmiato da Robinson ma un eletto. Saggiamente indirizzato dalle Scritture il protagonista della storia ha preso possesso della natura circostante così come Adamo ha “nominato” le cose per possederle e con la sua “illuminata” superiorità, si è reso il primo uomo di uno stantio eden venezuelano nei pressi della foce dell’Orinoco. Da questi indizi possiamo dedurre che lo sterminio di esseri simili si rendeva necessario per riproporre un paradiso terrestre altrimenti sovrappopolato. Venerdì è insieme suddito e servo, animale da compagnia – alla stessa stregua del pappagallo - e  un “pressoché umano” a cui elargire briciole di civiltà e fede, e al quale mostrare e imporre la propria indiscussa superiorità. Insomma tutti gli ingredienti per generare un’umanità civile e moderna, divisa in classi sociali e basata sulla ragione, però temporanea – difatti l’assenza di una donna e la conseguente impossibilità a generare fanno già intuire che Robinson verrà salvato da una nave inglese e che Dafoe sarà costretto a scrivere un infelice seguito che pochi conoscono. L’esotico è felicemente descritto in uno stile innovativo, giornalistico, così come i tormenti esistenziali del protagonista che medita sulla vanità del mondo, sui valori essenziali della vita, sulla solitudine ma raramente sulla rassegnazione nei confronti della propria condizione. L’ausilio della ragione unita alla fede è tanto potente quanto efficace: Robinson è certo della Salvezza che essa venga dall’ approdo fortuito di una nave o da Dio, e apparecchia quell’isola per un ultimo giorno, e poco importa se sarà quello della sua morte o del suo ritorno in patria. La ragione deve prevalere sulla disperazione, la fede sulla morte e insieme devono concorrere a innalzare una difesa efficace da tutte le intemperie e le difficoltà che una natura oramai foriera dall’umano può selvaggiamente offrire. Adamo-Robinson riprende in mano ancora una volta e “ volontariamente” il frutto della conoscenza, non può farne a meno se vuole sopravvivere, perché conosce un solo modo per farlo e cioè… dominare. La ragione e il Genesi si sono resi necessari non più per una nuova cacciata dal paradiso terrestre ma – paradossalmente – per la sua riproposizione in chiave illuministica. Robinson non può allontanarsi dall’Eden ne è impossibilitato, quindi è l’Eden che “deve” diventare una pallida ricostruzione della civiltà, uno specchio - il più verosimile possibile - della società da cui il naufrago proviene: “così squadrando e calcolando ogni cosa con la ragione e giudicandone nel modo più razionale, ogni uomo può col tempo diventare padrone di ogni arte meccanica” . Un breve passo che avvicina l’autore giornalista al  Discours di Cartesio smascherandolo definitivamente.
Tra le analisi del testo di Dafoe, da quella di Marx sino a Joyce - tutte più che plausibili -, pochi hanno avuto in cura di indicare un elemento tanto paradossale quanto inevitabile: la necessità dell’umano nel sopperire alla propria impotenza nei confronti della natura potendola solo dominare. Questo atto di forza più che “semplicemente illuministico” è un gesto ineluttabile per sopravvivere, per resistere in condizione avverse e per noi “innaturalmente” naturali. La civiltà e tutte le sue conseguenze quasi come un prodotto della specie, come un formicaio per le formiche, un habitat necessario che ci portiamo appresso ovunque andiamo per non soccombere: un carapace endemico, in bulimica e inarrestabile crescita che può anche rischiare di soffocare chi ne è protetto. Il dominio necessario sulle cose e sul mondo come unico strumento contro un altrimenti mortale condanna all’impotenza “nel” mondo. Un’ipotesi quasi claustrofobica e inquietante e per questo forse rimossa. Certo è che se questa fantasiosa conclusione fosse solo pallidamente possibile o – uomo non voglia – vera, ci renderebbe la forma di parassiti più pericolosa del pianeta, e tutti gli sforzi che ideologicamente e culturalmente facciamo per opporci al dilagare di tutto questo si ridurrebbero addirittura ad un danno verso la nostra stessa natura, al vezzo di una minoranza  già sconfitta perché è sempre e solo il più forte quello che sopravvive, anche se il suo destino è di restar soffocato da se stesso.  

giovedì 3 gennaio 2013

PAROLE IN INDACO MAI MESSE IN MUSICA



Sarà in primavera - con il gelo di un inverno inaspettato su un petto violato, e tutto questo solo  perché la madre del caso è l’ironia – quando parole e lacrime non avranno né senso o valore, quando nell’aprirsi il cielo si frantumerà in interminabili pomeriggi dove demoni meridiani, vigili di sadica allegria, apriranno come un melograno con un morso di melanconia il cuore graffiato. Quando in quella bocca salirà con quei rubini il sapore del nostro stesso sangue avrò la certa coscienza che tutto precipiterà nel patetico spettacolo della danza sconnessa di un giullare nato storpio e solo per l’occasione vestito a festa.
Leggo una lettera d’amore di un giovane tenente nella guerra d’Africa, attento a percorrere tra le venature dell’inchiostro in ottavo ogni singolo impercettibile spazio bianco oramai ingiallito dal tempo:  
“Amata mia, questo deserto è il silenzio di Dio che lascia nella sua indifferenza cadaveri e urla da ferite aperte. Tutte le mie convinzioni, il mio virile entusiasmo hanno oramai lasciato il posto ad un vuoto in cui precipitano tutte le cose, tranne il pensiero di Te. La guerra è quella folle scuola che istruisce l’uomo all’orrore dell’insensibilità, che fa marcire ogni residuo di umana compassione. Tutto è straziante e sordo allo stesso tempo. Mi ossessionano le macchie di sangue sulla mia casacca che non posso lavare da giorni: su questa lercia divisa ci sono impronte che uniscono i miei compagni morti ai nemici ammazzati: sabbia rappresa dal sudore e dalla paura, tutto si mischia, si stringe e unisce, con la certezza che solo questo mio pensiero terrificante offre l’ultimo, sottile e delicato filo di senso a questa follia. Alla fine resta solo il sangue e per quanto si dica e si pensi fuori dal corpo non ha nome, non ha identità né volto, è sangue morto e basta il cui odore nauseabondo ti fa solo bestemmiare. Il capitano ha perso tutte e due le gambe e non smette di dare ordini anche se nessuno di noi lo ascolta più; salvato per miracolo dalla cancrena non è stato risparmiato dai deliri della malaria e grida di notte dalla sua tenda  battuta da un vento gelido convinto che sia giorno e che la radio ancora dia ordini e obiettivi.
Siamo abbandonati e soli! E solo questa penna e questa carta sotto a un lume ad olio possono farmi sentire ancora un uomo. Mia Cara, non Ti scrivo solo per amore, Ti scrivo per sentirmi ancora parte dell’umano, di una vita che la guerra ti strappa dall’anima, e che se ti verrà restituita non sarà mai più la stessa, così come il mio amore per Te. In questo silenzio io rinnovo a Te tutte le mie promesse ma senza far indossare al cuore quei vestiti puliti della domenica che – perdonami - non ricordo più. Te le rinnovo qui, in questo momento, in questa tormenta color indaco e con questa divisa sporca, nella paurosa solitudine della mia tenda: io adesso sono un bambino terrorizzato da lampi e tuoni, piango e mi nascondo nei Tuoi ricordi immaginandoti nel leggere queste mie parole, certo che serberai in Te i miei che ho dimenticato. Nasco adesso in questa Mia, e domani al risveglio sarò costretto a pietrificare la mia anima morendo in segreto; poserò questa lettera nella polverosa borsa di cuoio di un motociclista sconosciuto non sapendo se sopravvivrà nel portarla a Te. Mia Amata chi ti scrive è Nostro figlio; in lui le nostre speranze, le nostre promesse senza  troppe parole, senza il torpore rituale di passeggiate settembrine sottobraccio,  senza vezzosi incanti timidi e costruiti dall’artificio necessario dell’innamoramento. Nostro figlio, che qui adesso ti dona tutte le sue lacrime e le sue parole riposa tra le tue mani con ricordi diafani d’assenza. Ho poca memoria del tuo volto mio Amore, e ciò che ricordo è come se lo guardassi dietro un vetro spesso, ma ho impresse la tua voce e vedo i tuoi occhi, la freschezza delle tue braccia candide, tutti perfetti silenzi dove ritrovo, con uno sguardo nuovo, tutto ciò che sono stato. Se tutto questo finirà e tornerò da Te  non avrò più labbra per  prometterTi felicità che nessuno conosce e che io qui ignoro e distruggo, ma solo restituiti giorni grati per l’assenza della follia umana, anni semplici di stupore e meraviglia per esser stati risparmiati da tutto questo. Se fossi qui non vorrei che mi guardassi adesso; ho vergogna di me, delle mie lacrime, delle mie azioni, dei miei occhi scavati e dalle mie labbra arse dal sale, eppure riusciresti a vedere, nonostante tutto, quanto questo sconfitto ti ami infinitamente. Resta la tenacia dei miei occhi che combattono per restare quelli di sempre nonostante l’inferno che sono costretti a guardare, per Te e solo per Te.
Sempre Tuo (….)”
Il giovane tenente, sposatosi per procura, riuscì a tornare dopo esser stato prigioniero  a seguito dell’ operazione Pugilist nella campagna del Nord Africa, ma al suo ritorno scoprì che sua moglie fu vittima del bombardamento aereo su Torino nel giorno dell’Immacolata del 1942. Lei non poté mai  leggere quest’ultima lettera e lui la ritrovò ancora sigillata tra le mani della madre della ragazza. Il giovane sposo  nacque già vedovo, celebrarono le nozze in primavera.